mercoledì 13 settembre 2017

Il tallone di ferro (parte I)

La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, lo stesso vale per la politica. Non c'è reale soluzione di continuità tra la guerra e la politica, sebbene ci sia un'asimmetria; nel senso che mentre per imporre la guerra basta la volontà di una sola delle parti, affinché il terreno di scontro sia la politica occorre il consenso di tutte. Ne segue che se oggi in Italia e in Europa non siamo in guerra, ciò accade perché le parti in lotta lo trovano (ancora) conveniente. Corollario di questa constatazione è che nessuna delle parti deve tirare troppo la corda, onde evitare che qualcuno, messo alla disperazione, possa scegliere la guerra. Alcuni sostengono, ad esempio, che sia nella prima che nella seconda guerra mondiale la Germania e il Giappone siano stati costretti a scegliere la guerra. Non so quanto ci sia di vero in ciò, sebbene la logica delle cose umane mi suggerisca che, almeno come ipotesi, non lo si possa escludere a priori.

Il fatto che un conflitto sia giocato sul piano politico non significa che esso non produca disastri, come dimostrato dai dati della produzione economica italiana, che ha subito, in seguito alla crisi dell'eurozona, una contrazione maggiore che nella seconda guerra mondiale. Non mi prendo la briga di riportare i dati perché sono noti, e chi poteva capire ha capito. Gli altri, almeno in questo momento, non contano. Verrà il momento di raccogliere i ritardatari, che dovranno necessariamente mettersi umilmente in fila e a servizio di chi ha già capito. Se vi sembro arrogante non vi state sbagliando: lo sono. Dunque scrivo per i pochi e felici, come ormai faccio da qualche anno, almeno da quando ho smesso di aggiornare il vecchio sito ecodellarete.net con l'apodittica affermazione

Voi fate il c...o che volete, ma non venite a scassarmi la minchia dopo il bombardamento!

Con l'avvicinarsi delle elezioni politiche del 2018 lo scontro politico sta diventando più aspro. Le forze in campo sono, da una parte, tutti i partiti politici presenti in Parlamento, dall'altra tutto il popolo. In teoria il Popolo dovrebbe essere il più forte, e vincere a mani basse, ma mentre il sistema dei partiti è una schiera organizzata che agisce secondo una regia condivisa e, comunque, vigilata dalle grandi concentrazione del potere privatistico, politico, economico e ideologico dell'occidente liberista, il Popolo è del tutto privo di organizzazione e, soprattutto, di una base ideologica comune. Il che ha, come conseguenza, la sua totale incapacità di sfuggire alla polverizzazione individualistica delle posizioni, dei punti di vista, delle visioni particulari. Ciò nonostante, il Popolo è e resta una minaccia perché non si può mai escludere che, d'improvviso, dalle sue viscere risorga, impetuosa e inarrestabile, la capacità di ergersi a schiera in difesa dei suoi interessi.

Se è l'1% che domina il mondo, questo 1% teme che, dalle viscere del Popolo, possa emergere una forza politica organizzata capace di raccogliere l'1% del consenso popolare!

La partita si gioca oggi su questa scommessa. E' sufficiente che una forza politica popolare organizzata riesca a raccogliere l'1% alle prossime elezioni politiche perché lo scenario cambi radicalmente. Il problema è, per noi, di costruirla; per €$$I impedire la sua nascita. E poiché lo scontro è ancora di natura politica, dunque basato sulla conquista del consenso, che passa per la manipolazione del racconto, ecco che si è dato il via alla stagione delle fake-news. Le quali, è bene intendersi, non sono soltanto le notizie false create ad arte, che pure abbondano sia sui media mainstream che sulla miriade di siti direttamente controllati da €$$I o ideologicamente conquistati alla loro visione del mondo! Il grosso del lavoro, se si analizza con attenzione la narrazione mainstream, viene fatto a partire da fatti reali che vengono opportunamente amplificati e riproposti serialmente, così da accendere in basso discussioni interminabili, che favoriscono la segmentazione dell'opinione pubblica generale su una grande quantità di temi altamente divisivi. Si va dai vaccini agli stupri, dalla pretesa emergenza climatica alle scie chimiche, dal femminicidio ai diritti dei finocchi, dai suicidi degli adolescenti alla proposta di legalizzare le droghe leggere, dalle criptomonete ai robot, fino alla messa al bando delle nostalgie popolari e folkloristiche del Duce, e chi più ne ha più ne metta. Tutto, purché non si parli della ciccia del problema, che è una semplice, evidente, chiara e lampante questione di equilibrio dei poteri tra le classi sociali, tale da rendere possibile l'esercizio della democrazia.

Perché è la democrazia, e non altro, la vera posta in gioco dell'età contemporanea. Quella democrazia che è presupposto essenziale affinché la stessa lotta di classe possa svolgere la sua preziosa funzione evolutiva, sia pure tra i mille deprecabili conflitti che conosciamo. Il fatto è che il rapidissimo sviluppo tecnologico ha creato le condizioni di un golpe ultraoligarchico, che ha interessato l'intero occidente, posto operativamente in essere dalla metà degli anni settanta del secolo scorso. C'è stata una vera intenzionalità politica, che ha fatto leva sullo straordinario avanzamento tecnologico degli ultimi decenni come strumento atto a limitare, dapprima, infine comprimere totalmente, la partecipazione alla vita pubblica di tutte le altre classi sociali, consegnando il potere esclusivamente nelle mani di un'élite politica, ideologica, militare e finanziaria numericamente ridottissima. Ci riferiremo a questa super élite mondialista, il complesso militar industriale e finanziario dell'occidente allargato - cioè Stati Uniti e Unione Europea - con un'espressione ben nota: il tallone di ferro.

Non è, si badi bene, un blocco monolitico, sebbene sia unito dall'interesse comune di mantenere sottomesse tutte le altri classi sociali. Anzi, è altamente probabile che al suo interno possano, in futuro, esplodere guerre catastrofiche, senza che noi Popolo si abbia il minimo potere di impedirli, ma che dovremo subire come capi di bestiame destinati all'abbattimento di massa, se ad €$$I converrà.

Dobbiamo rispondere, a questo punto, a due domande: se sia ancora possibile opporsi al tallone di ferro, e quanto ciò sia pericoloso. Partirò dalla seconda questione affermando che sì, in effetti, minacciare seriamente il tallone di ferro è cosa pericolosissima, sia per chi lo fa che per l'intera società nel suo complesso. Ancor più pericoloso sarebbe adottare una strategia sbagliata, ad esempio attaccarlo in campo aperto. I mezzi di cui dispone non sono solo quelli della narrazione dominante - €$$I sono i Padroni del discorso - ma anche della repressione poliziesca e militare. Tali mezzi, però, costituiscono anche il limite della sua forza perché il tallone di ferro non può dominare senza il consenso, a dispetto del suo strapotere militare. Questo è come la bomba atomica, che può essere agitata come minaccia ma mai usata, perché le conseguenze sarebbero imprevedibili anche per le loro menti raffinatissime. Ed è questa la ragione per cui, nonostante tutto, la battaglia si svolge, ancora e speriamo a lungo, sul terreno politico.

In campo politico il tallone di ferro è fortissimo sul piano della narrazione veicolata dagli strumenti tecnologici: televisione, giornali, cinema, editoria tradizionale e online, cui si aggiunge la capacità di costruire frames culturali attraverso il controllo delle carriere universitarie. Tutto ciò si traduce in consenso politico, la qual cosa pone sotto il suo controllo le burocrazie statali nonché, come già detto, gli apparati repressivi. Un suo punto debole, complementare alla problematicità di usare esplicitamente questi ultimi, è costituito dalla fragilità di un consenso fondato su una massa enorme di falsità. Tale consenso, dunque, può essere conservato solo a patto che permanga la condizione di polverizzazione politica di tutte le classi sociali.

Ma il vero tallone d'Achille del tallone di ferro è nella natura teleologica del progetto sottostante. La super élite mondialista dell'occidente allargato pretende di modellare il mondo in funzione della sua necessità di consolidare un potere che è strutturalmente fragile, perché non è la risultante hamiltoniana di un ordinato e regolato conflitto di classe: quello che dovrebbe essere, ed è storicamente stato, il compito naturale delle classi dirigenti. L'impossibilità di controllare la creazione e distribuzione della ricchezza non è nelle possibilità di nessuna super élite numericamente ridottissima, sia essa un partito comunista o la massoneria golpista dell'occidente allargato, ed ecco che costoro hanno adottato una teoria, l'allocazione ottimale dei fattori di produzione ad opera delle sole forze del mercato, la quale oltre ad essere altrettanto folle della pretesa dei comunisti di pianificazione totale, è anche viziata dal fatto che questo mitologico mercato non è a concorrenza perfetta. E non può esserlo per umanissime ragioni: chi, potendo approfittare di una posizione dominante, è disposto ad abbandonarla in ossequio alle regole necessarie alla costruzione di un mercato conforme a questa irenica visione? Ecco allora che si assiste al proliferare di regole, normative e quant'altro che, quando non sono sfacciatamente asimmetriche, e sempre a favore degli interessi delle parti più forti, vengono in ogni caso disattese dalle stesse e subite da quelle più deboli. Anche in questo la super élite mostra la sua incapacità nel perseguire teleologicamente la propria visione, ed è per questa ragione che l'unico e solo modo che ha di mantenere il potere è quello di incrementare la potenza di fuoco della sua narrazione.

Fine parte I

3 commenti:

  1. Ma , il virus dell'apatia , che sta diffondendosi in ogni ambito della società , come lo inquadri ,tu ? un esempio banale , se quello che è successo domenica , nella partita Verona-Fiorentina fosse successo una decina di anni fa , sta pur certo che i giocatori non uscivano piu' dallo stadio , invece sul 0-5 , i butei cantavano ironicamente : portaci in Europa e non e' che abbiano perso la loro carica di violenza perche' poco dopo hanno massacrato un povero cristo che aveva la sola colpa di indossare una felpa del Chievo .E questa non è una mia personale considerazione , ma anche quella di tutti gli altri veronesi .

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  2. (( Il grosso del lavoro....viene fatto a partire da fatti reali che vengono opportunamente amplificati e riproposti serialmente, così da accendere in basso discussioni interminabili, che favoriscono la segmentazione dell'opinione pubblica generale su una grande quantità di temi altamente divisivi. Si va dai vaccini agli stupri, dalla pretesa emergenza climatica alle scie chimiche, dal femminicidio ai diritti dei finocchi, dai suicidi degli adolescenti alla proposta di legalizzare le droghe leggere, dalle criptomonete ai robot, fino alla messa al bando delle nostalgie popolari e folkloristiche del Duce, e chi più ne ha più ne metta.)).

    Quindi, mi dai ragione se dico - come da tempo penso - che i "controinformatori" a go go che imperversano sul web lavorano consapevolmente o inconsapevolmente per ESSI?

    In ogni caso, ormai ESSI non si limitano più al pilotaggio dell'informazione mainstream, avendo capito che non è sufficiente.
    A questo proposito, segnalo ed invito a leggere il seguente post di Federico Dezzani:

    http://federicodezzani.altervista.org/movimento-arturo-le-truppe-cammellate-di-george-soros-in-rete/#sdfootnote6sym



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    1. I "controinformatori a go go" svolgono molti ruoli, alcuni positivi altri meno, e alcuni decisamente deleteri. Sto parlando di quelli in buona fede, ovviamente. Tra gli effetti più nefasti trovo che ci sia l'appiattimento, perché le centinaia di articoli che vengono continuamente rilanciati sui social vengono proposti senza alcun ordine, senza cioè che emerga dal loro profluvio una trama fondamentale. Prendiamo il caso dell'immigrazione: migliaia di rilanci sugli episodi di delinquenza in cui sono coinvolti gli immigrati, bilanciati dai casi in cui i protagonisti sono italiani, senza che riesca ad affermarsi a sufficienza l'aspetto più importante del fenomeno, cioè la necessità, per rimanere nell'eurozona, di inseguire i paesi del centro nella folle corsa al ribasso del costo del lavoro.

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