mercoledì 8 ottobre 2014

La resilienza dell'€uro (12)

Il regime di libera circolazione dei capitali 

 

 A partire dal “divorzio”, un’imponente produzione legislativa trasformò completamente il regime finanziario seguito dall’Italia, ponendo fine a una condizione alla quale possiamo riferirci con l’espressione “repressione finanziaria”. Dal documento programmatico presentato all’Assemblea nazionale dell’ARS (PESCARA 15 e 16 giugno 2013) leggiamo:
Primo presupposto del regime di repressione finanziaria è che il risparmio dei residenti, cittadini o stranieri, famiglie o imprese, non possa uscire liberamente dall’Italia: chi intenda far uscire il proprio risparmio dall’Italia deve chiedere un’autorizzazione amministrativa. Questo principio oggi stupisce e insospettisce la persona comune, la quale, generalmente, ha l’animo e la mente conquistati da (oltre) venti anni di ideologia liberoscambista. Eppure è stato un principio vigente dagli anni trenta al 1990, quando fu abolito il controllo amministrativo sulla circolazione dei capitali. In particolare in Italia sono state vigenti dal 1956 al 1990 le seguenti disposizioni normative, contenute nel D.L. 6 giugno 1956, n. 476, convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1956, n. 786: “Ai residenti è fatto divieto di possedere quote di partecipazione in società aventi la sede fuori del territorio della Repubblica nonché titoli azionari e obbligazionari emessi o pagabili all’estero se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 5, I comma); “Le cessioni, gli acquisti e ogni altro atto di disposizione fra residenti e non residenti, concernenti i titoli di credito di qualsiasi specie, non possono effettuarsi se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 6, I comma); “L’esportazione dei titoli di credito menzionati al precedente comma, nonché dei biglietti di Stato e di banca “nazionali”, può effettuarsi in base ad autorizzazioni ministeriali“ (art. 6, II comma); più in generale, “Ai residenti è fatto divieto di compiere qualsiasi atto idoneo a produrre obbligazioni fra essi e non residenti, esclusi i contratti di vendita di merci per l’esportazione nonché i contratti di acquisto di merci per l’importazione, se non in base ad autorizzazioni ministeriali. Ai residenti è fatto divieto di effettuare esportazioni ed importazioni di merci se non in base ad autorizzazioni ministeriali” (art. 2, I comma)”.

Lo smantellamento del regime di repressione finanziaria vigente in Italia è avvenuto attraverso una serie di interventi succedutisi per tutti gli anni ‘80. Nel 1983 venne presa la prima e forse più importante decisione, l’accantonamento del “massimale sugli impieghi”. Questo era uno strumento della politica creditizia che autorizzava lo Stato a fissare un limite massimo alla crescita dei prestiti bancari, sia globalmente che in riferimento a particolari categorie di prestiti. L’utilizzo del “massimale sugli impieghi” poneva sotto il controllo dello Stato il flusso dei prestiti bancari al mercato, consentendo di limitare la quantità di denaro che le banche potevano prestare senza che la Banca d’Italia dovesse, per ciò, alzare il tasso di sconto; questo impediva che un aumento dei tassi si riflettesse sui costi per la remunerazione del debito pubblico, anche perché le banche in possesso di liquidità in eccesso, non potendo espandere i loro prestiti oltre i limiti prefissati, non avevano altra scelta che acquistare titoli di stato, facendone scendere gli interessi. Inoltre, poiché lo Stato poteva profilare il massimale in base alle tipologie di prestiti (mutui piuttosto che prestiti commerciali, ad esempio), esso aveva il pieno potere di intervenire sul mercato per stroncare, sul nascere, ogni accenno di bolla. Quella immobiliare, che ha devastato l’economia spagnola e ha creato serie difficoltà anche nel nostro paese,  poteva essere repressa con un semplice atto amministrativo.

In Italia il controllo del credito attraverso il massimale degli impieghi era stato attuato dalla Banca d’Italia, per la prima volta, il 26.7.1973. Nel 1978, in vista dell’entrata nello SME, la portata di tale provvedimento venne attenuata, per poi abolirlo nel 1983. Esso venne ripristinato, seppur temporaneamente, in occasione dell’esplodere di gravi crisi valutarie (dal 16.1.1985 al giugno 1986 e dal 13.9.1987 fino al 31.3.1988) causate dalle difficoltà del nostro paese di sostenere il peso dell’adesione allo SME.

Un secondo strumento era il cosiddetto “vincolo di portafoglio”, consistente nell’obbligo, imposto dallo Stato alle banche, di “accrescere la quantità di titoli di stato in portafoglio per un ammontare minimo rispetto alla consistenza od all’incremento dei depositi”. In sostanza lo Stato, attraverso il vincolo di portafoglio, obbligava le banche all’acquisto di una quota minima di titoli del Tesoro contribuendo, anche per questa via, a mantenerne bassi gli interessi. Anche il vincolo di portafoglio, introdotto nel 1973 insieme con il massimale sugli impieghi, subì un’attenuazione nel 1978, sempre in funzione dell’entrata nello SME, e fu definitivamente revocato nel triennio 1986/1988 (adeguamento alle direttive CEE 566/1986 e 61/1988).

Oltre al massimale sugli impieghi e al vincolo di portafoglio, altre modifiche al regime di repressione finanziaria riguardarono l’abolizione degli strumenti volti a limitare la fuoruscita di capitali nazionali all’estero, come l’obbligo del “deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere” (abolito nel 1987) e il “divieto di investimenti all’estero a breve termine”, abolito nel 1990 con l’adeguamento alla direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine (d.m. 27.4.1990 n. 91, entrato in vigore il 14.5.1990).

L’insieme di tali provvedimenti appare particolarmente gravi ove si consideri il fatto che, in una fase di aumento generalizzato dei tassi di interesse, durante la quale sarebbe stato opportuno incanalare il risparmio delle famiglie verso impieghi domestici, si aprivano le porte all’esportazione legale di capitali alla ricerca del massimo rendimento. Negli stessi anni, giova ricordarlo, l’Italia dovette adottare una politica volta ad importare capitali esteri, pagando tassi di interesse sempre più elevati, per compensare lo squilibrio nei movimenti delle merci (e dunque il minor afflusso di valuta) conseguenza dei cambi fissi dello SME. Ovviamente l’aumento generalizzato dei tassi di interesse a livello mondiale, al quale non era possibile sfuggire proprio in virtù delle liberalizzazioni, produsse effetti depressivi sugli investimenti. Il Governo fu costretto ad intervenire sistematicamente in favore della grande industria, moltiplicando trasferimenti e sussidi, appesantendo ulteriormente il debito pubblico. L’effetto combinato sui conti dello Stato dell’adesione allo SME e della liberalizzazione del mercato dei capitali fu impressionante. Nel 1985, per la prima volta, il tasso medio pagato sul debito pubblico divenne maggiore della crescita del PIL. Per evitare gli effetti moltiplicatori insiti in questa circostanza si cominciò a parlare di riduzione della spesa pubblica.

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