sabato 3 marzo 2018

Riappropriarsi del plusvalore o suddividere il lavoro?

Leggo questa notizia:

La proposta di Grasso: “Settimana lavorativa da 32 ore a parità di stipendio

«Il leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso, ha proposto la settimana lavorativa da 32 ore a parità di stipendio. L’obiettivo della riforma è l’abbattimento della disoccupazione, soprattutto giovanile: le ore non lavorate dai già dipendenti andrebbero coperte da nuovi assunti e si creerebbero così nuovi posti di lavoro.»

Intanto vi faccio notare il condizionale: «le ore non lavorate dai già dipendenti andrebbero coperte da nuovi assunti e si creerebbero così nuovi posti di lavoro», il che fa nascere il sospetto che non vi sia l'obbligo, per le aziende, di assumere per rimpiazzare le ore perse. Queste potrebbero reagire aumentando gli straordinari, o utilizzare maggiormente gli impianti oggi sottoutilizzati a causa della scarsa domanda. Sembra una fisima, ma il diavolo si nasconde nei dettagli, che tanti entusiasti tendono a non vedere. Inoltre, i nuovi assunti non è detto che lo saranno con le stesse tipologie di contratto di quelli ai quali sarebbe applicata la riduzione oraria a parità di salario, visto che oggi c'è il jobs act. Ma anche questa è una fisima, diranno gli entusiasti.

Tuttavia il punto è un'altro, ovvero far finta di non capire che, in assenza di forti stimoli pubblici finanziati a deficit, possibilmente monetizzato - cioè stampando la moneta che serve, i posti di lavoro sono una variabile che dipende da una domanda aggregata che può solo scendere per la caduta tendenziale del saggio di profitto. Pertanto, imporre per legge la riduzione delle ore di lavoro a settimana, invece di lasciare questa scelta ai singoli lavoratori, compresa quella di aumentarle (con proporzionale aumento di salario) per chi ne ha bisogno o voglia, sostituendosi a quelli che invece preferiscono la riduzione oraria a parità di salario, è una misura strutturalmente deflattiva.

Eh già, la caduta tendenziale del saggio di profitto è una fiaba raccontata dai marxisti dell'Illinois per spaventare i bambini prima di mangiarseli... così vengono più teneri.

L'unica proposta sensata è oggi quella di agire per riconquistare le posizioni perse dal punto di vista della quota salari, cioè la frazione di plusvalore prodotto che va a remunerare il lavoro invece che il capitale. Questo è il grafico della quota salari dal 1960 al 2012:


Oggi, nel 2018, la situazione dovrebbe essere peggiorata, ma non ho a portata di mano dati aggiornati.

E' bene tuttavia rimarcare un fatto importante: senza la capacità di un governo di imporre controlli alle frontiere su capitali, merci e servizi, un aumento della quota salari, poiché aumenterebbe il reddito dei lavoratori, aumenterebbe le importazioni e farebbe scendere le esportazioni, peggiorando così il saldo commerciale con l'estero. Sembra difficile, ma in fondo ho solo detto quello che ogni lavoratore sa: che oggi siamo in concorrenza con i lavoratori di paesi nei quali il salario, per ora lavorata, è molto più basso che da noi!

Immagino già l'obiezione del liberista col culo degli altri: sì, ma questo non è altro che il principio dei vasi comunicanti, per cui in occidente i salari scendono ma salgono nei paesi che si affacciano alla modernità. Costui dimentica un dato essenziale, che questi vasi comunicanti interessano solo la quota salari, mentre non intaccano affatto la quota capitale. Anzi, la quota salari è scesa anche più di quanto avrebbe dovuto per essere giustificata dal principio dei vasi comunicanti, perché si sa che l'appetito vien mangiando. 

In un certo senso, la tesi secondo cui il peso della globalizzazione avrebbe dovuto essere ripartito tra capitale e salario, è il cavallo di battaglia dei liberisti cosiddetti buoni, i quali stanno cercando di smarcarsi dalle responsabilità di scelte sempre più chiaramente dannose per lo stesso capitalismo. In realtà, più che delle responsabilità dei vincitori, cioè gli interessi del grande capitale finanziario e industriale, conviene occuparsi delle responsabilità dei perdenti, in particolare dei ceti politici che avrebbero dovuto tutelare, e non lo hanno fatto, gli interessi del lavoro. La responsabilità di queste forze "di sinistra", così si fanno chiamare dopo aver mandato in soffitta il socialismo e il keynesismo, è duplice: verso le loro classi di riferimento, i lavoratori, e più in generale dal punto di vista di chiunque occupi posizioni apicali in organizzazioni politiche, che non dovrebbe mai dimenticare l'obbligo di tenere d'occhio la sostenibilità di sistema; soprattutto quando si contratta un nuovo equilibrio per conto di interessi che si dovrebbero difendere, ma li si abbandona per la fretta di sottomettersi a un avversario che appare vincente, e presso il quale hanno implorato, e ottenuto, privilegi per sé e le loro organizzazioni. Spesso anche a discapito della democrazia, come nel caso di certe regole di rappresentanza sindacale, accettate e sottoscritte senza un belàto di protesta.

Non tocca a noi chiedere al capitale trionfante di fermarsi a riflettere: non lo farà. Come in guerra, l'unico scenario che consente un equilibrio possibile è quello in cui, anche se c'è una parte che prevale, i rapporti di forza sono tali che un'ulteriore avanzata di chi è più forte avrebbe un costo così alto da scoraggiare l'iniziativa. Ma questo è possibile solo se la parte in quel momento più debole riesce a riorganizzarsi, e a mandare il chiaro messaggio che, da quel momento in poi, ogni metro conquistato varrà meno delle risorse necessarie a guadagnarlo.

Pertanto, la proposta deflazionista di Pietro Grasso rappresenta l'ennesimo tradimento del ceto politico cosiddetto "de sinistra", per altro in buona compagnia del movimento 5 scontrini e di quel del PD che, mollato Renzi dopo l'imminente batosta elettorale, si presterà a un governo, ovviamente d'emergenza e di scopo, con entrambi. Tutto ciò è possibile anche perché, ben al di sotto dei vertici apicali, un esercito di zombies compromessi con le piccole e piccolissime clientele, applaude stolidamente alla volta di proposte che non solo non vuole capire (magari, ci sarebbe speranza!) ma proprio non è in grado di comprendere, per evidenti e sconcertanti limiti di cultura politica.

Quanto manca perché tutto precipiti? Anni? Decenni? Forse mesi? Questo proprio non so dirlo, ma posso affermare con assoluta certezza, sulla base di millenni di storia che dovrebbero insegnarci qualcosa ma evidentemente non lo fanno, che quando si verifica la rotta di una delle parti in lotta, allora non si assiste solo al trionfo del vincitore, ma alla fine di un mondo.

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