lunedì 2 giugno 2014

Le origini contadine di un leggendario ceto dirigente

Dal sito appelloalpopolo.it, un eccellente articolo del socio ARS Luciano del Vecchio.

Le origini contadine di un leggendario ceto dirigente
di Luciano Del Vecchio

Roma nacque dall’unione di varie tribù protourbane, che un ceto di proprietari terrieri costrinse a organizzarsi in una struttura unitaria. Il sorgere di questo gruppo dirigente, cambiando l’iniziale criterio di aggregazione da etnico in territoriale, garantì a tutti, romani o meno, la possibilità di sentirsi ed essere considerati cives.Questi Patres, allorquando si resero conto che i prìncipi etruschi stavano creando una situazione politica e sociale in cui essi, i patres, avrebbero contato sempre meno, si affrettarono a imporre la loro supremazia politica ed economica, cacciando non l’etnia ma i re etruschi. Pur non essendo il re un sovrano assoluto, pur non potendo fondare dinastie né mischiare il bene pubblico con i suoi privati, i patrizi decisero comunque di rimuoverlo, perché avevano capito di poter fare da soli, di non aver più bisogno di un intermediario che considerava la città come luogo e la carica come occasione per arricchirsi. Cacciando i re, i Patres respinsero gli sfruttatori stranieri (oggi è il caso di rileggersi la lezione), e assicurarono ai ceti poveri, da cui essi stessi emergevano, una sopravvivenza decente. Ripreso il controllo della città, in un contesto urbano e rurale di iniziale impoverimento, essi elaborarono un ideale complesso di valori che oggi definiremmo anticonsumista. Veri e autentici Romani si riconoscevano soltanto coloro che, per frugalità e modestia di esigenze, osservavano il mos majorum, cioè l’insieme dei costumi e delle doti morali ereditati dagli antenati, che li educò ad accontentarsi di poco. La moderazione dei consumi, praticata scrupolosamente dai Romani, contrassegnerà la loro società fino alla tarda repubblica, almeno fino a quando le città magnogreche non fecero intravedere un tenore di vita meno severo e sobrio di quello a cui erano abituati.
Fatti salvi i loro privilegi di proprietari di terre, punto su cui non sentivano ragioni, iPatres trasformarono i re in un’idea: la Res Publica, un ente astratto al di sopra di ogni cittadino, in cui la legge non era più un ordine imposto dal monarca ai sudditi ma una sorta di “patto” tra sovrani. Non era facile concepire un’astrazione come lo Stato e imporla come religione, regola di vita, misura di ogni valore, come espressione costituzionale di sovranità popolare, ma ci riuscirono, e in questa creazione si identificarono e ne condivisero il destino. Raddoppiarono le cariche e dimezzarono i tempi. Non uno ma due re, per un solo anno, e a turno da ciascuno di loro, non solo per controllarsi a vicenda, ma anche per fare del governo un servizio da rendere allo Stato e non soddisfacimento di ambizioni e interessi personali. E siccome limitare la durata temporale della massima magistratura comportava il dover garantire comunque la continuità e la stabilità del potere, decisero di farsene garanti loro stessi, cioè la loro assemblea: il Senato.
I senatori non bilanciarono soltanto i poteri politici dei consoli e del senato, ma allo stesso tempo armonizzarono le varie classi sociali tramite un sistema di pesi e contrappesi (aequilibritas), garantito dall’eguaglianza davanti alla legge. I ceti subalterni non erano masse incoscienti, pavide e abbrutite dalla servitù, ma civesconsapevoli dei loro diritti e determinati a farli valere con secolare e tignosa risolutezza. In Roma il contrasto tra il patriziato e la plebe fu una costante nella storia della città. All’equilibrio sociale mirarono assiduamente il popolo e le istituzioni (Senatus Populusque), scontrandosi ferocemente per secoli. A dar voce al popolo furono i tribuni, che svolgevano un ruolo di opposizione dura, intransigente, vitale e mai velleitaria; rappresentavano l’opportunità e la convenienza della plebe di accordarsi con il senato nei momenti difficili per lo Stato. La collaborazione di tutti gli ordini sociali (concordia ordinum) non fu sempre armoniosa, ma tutti la riconoscevano come presupposto per l’esistenza dello Stato. I magistrati in pace, i generali in guerra, i patrizi e i plebei, tutti erano chiamati a porre sempre il benessere e la salvezza dello Stato equilibratore e garante della libertà al di sopra degli interessi delle parti (salus Rei Publicae).
E così i Patres Conscripti crearono la Repubblica, fecero di Roma il primo Stato della storia degno di definirsi tale, poiché non questo erano le polis greche, non questo erano i principati asiatico-orientali, non questo erano i regni faraonici; nessuna di queste Res era “publica”. Questa forma costituzionale fu una creazione politica collettiva, nata dall’opera concorde di molti uomini e nel corso di molte generazioni. I Patres non l’inventarono in un giorno tracciando un solco, ma la strutturarono in una lunga gestazione (res publica constituenda) che forgiò la loro capacità di governo e la loro maturità politica. E tuttavia non è senza significato che quel leggendario solco tracciato dall’aratro di un contadino italico fosse l’atto fondativo dello Stato; esso rimase a simboleggiare l’immenso valore storico e giuridico del Limes, la frontiera, al di qua della quale vige la Lex, cioè la norma, la regola, la misura, l’equilibrio giuridico, e anche quello sociale. Il merito di questo straordinario risultato deve essere attribuito ai senatori di origine patrizia, alla loro fermezza (constantia), a un rigoroso senso del dovere (officium), alla lealtà verso lo Stato (fides): indiscutibili qualità politiche e morali per le quali i comizi centuriati e le varie magistrature, riconoscendole, accettavano la loro supremazia. I senatori sentivano così drammaticamente la dedizione allo Stato da ritenersi, nella loro mentalità arcaica e contadina, legittimati in qualche misura a esercitare in esclusiva il potere di governo e il diritto di decidere non solo per sé, ma anche per tutti quelli che facevano parte della Comunità. Un merito in particolare si attribuivano tra gli altri: quello di non aver mai disperato del destino dell’Urbe quando tutto sembrava prevedere la sua totale distruzione. A tutti gli altri, oppositori o interlocutori, non riconoscevano titoli per decidere sulle questioni dello Stato, perché li ritenevano troppo dediti e condizionati a cercare il loro utile quotidiano, e dunque incapaci di concepire e riconoscere l’interesse generale, il bene comune.
Intanto, secolo dopo secolo, tutti gli altri, i plebei, si arricchirono e ottennero, grazie alla legge dei tribuni Licinio e Sesto, che uno dei due consoli potesse essere plebeo (367 a.C.). Quelli di loro che riuscirono a ricoprire la carica, considerarono questa come motivo di distinzione sociale, per cui ben presto si definirono nobili e trasmisero il titolo agli eredi. Agli antichi capi delle gentes, che avevano cacciato i re e fondato la repubblica, si affiancò un ceto dirigente di estrazione plebea con idee non molto diverse da quelle del patriziato, e non meno avido e aggressivo di questo. Su un punto in particolare si erano subito accordati: le cariche pubbliche sarebbero state di loro esclusiva competenza. La rapida integrazione dei due ceti, da una parte, confermò una regola esplicita nella costituzione e nei comizi centuriati: i cittadini più ricchi prendevano decisioni per tutti, romani e alleati; dall’altra, l’aristocrazia vecchia e nuova, concentrando tutto il potere politico ed economico nelle sue mani, creò di fatto una società a mobilità sociale aperta, capace di cambiare abitudini, puntare al meglio, minimizzare il privilegio e di non disperdere capacità, abilità e talenti lungo la scala sociale, che dalla plebe, passando per gli equites, poteva far giungere alla Curia; in pratica produssero un sistema dinamico fatto di un diritto positivo nato dall’esperienza storica.
Per questa classe dirigente, oligarchica e autoritaria, il consenso era fondamentale, non solo in tempi ordinari ma anche per forme di governo straordinarie come la dittatura in periodo di guerra. I senatori seppero coniugare consenso e potere con un’abilità, un fiuto e una sapienza politica non inferiori alla loro naturale vocazione di predatori. Riuscivano a coagulare il consenso di tutti gli strati della comunità e trasformarlo in una politica estera abile, lungimirante, ma non sempre spietata, come si è indotti a credere. A suggerire infatti ai senatori le direttive della politica estera e militare furono soprattutto la lealtà e il senso del limite (fides, concordia, iustitia et moderatio). Il sistema romano formalmente aveva una costituzione di città-stato, in realtà contava su una dimensione e su un consenso propri di uno stato nazionale, tramite una fitta rete di trattati (Foedus), che tessevano una varietà di rapporti adatti alla condizione delle singole città assoggettate, e lasciavano al singolo popolo grande autonomia per le questioni interne. Per gli alleati la supremazia romana era tollerabile perché non imponeva tasse esose, e spesso richiesta perché li garantiva nei confronti dei vicini e li faceva partecipi nella distribuzione del bottino. Per il mondo antico, dove i regni a base etnica sembravano feudi allargati, era una novità questa originale cultura politica espressa dai Romani, che partoriva una struttura pattizia fondata non solo su affinità culturale, ma anche sul consenso dei cittadini. Grazie a questa prima forma di reale e nobile foederatio, che univa e non sgretolava, la dirigenza romana sviluppò negli alleati italici un sentimento di nazionalità che non venne meno, neppur quando i nemici esterni sbarcarono in Italia sperando invano di sollevare le popolazioni contro Roma, con la promessa dell’indipendenza. Ignoravano che, prima di essi, era Roma a garantirla, perché acutamente e saggiamente aveva visto allontanarsi il pericolo di coalizioni contro di essa nell’indipendenza di ogni singolo alleato, garantito da un trattato ad hoc, e dissuaso a collegarsi con altri. Fu così che la dirigenza repubblicana, dopo aver creato lo Stato, fece sorgere anche la Nazione; unificando l’Italia, costituì un organismo che anticipò di quasi mille anni la formazione degli stati nazionali.
Il senso del limite e della realtà, così concreto da sembrare a volte spietato e crudele, nasceva dall’attaccamento alla terra e dalla convinzione che soltanto la terra può assicurare la ricchezza e la sicurezza dello Stato, perché essa non produce solo beni, ma uomini. Solo i contadini infatti, disciplinati e temprati dalla fatica durissima che l’agricoltura impone, sviluppano le qualità fisiche e morali per diventare buoni soldati e difendere la repubblica dai nemici. Nella Roma repubblicana le qualità contadine furono trapiantate e innestate – e fu questa la singolare eccezione – anche nell’arte di governare, dove i senatori per istinto primeggiarono su qualsiasi altro sovrano del tempo. E posero le basi dell’impero più duraturo della storia occidentale proprio nel periodo repubblicano, durante il quale più che in altri, i Romani si scannarono, sia dentro che fuori le mura, in guerre civili e sociali quasi ininterrotte. Come ci sono riusciti? Dov’era il segreto? Si è soliti rispondere: nelle legioni. I Romani avrebbero edificato la loro potenza sulla disciplina militare, eppure non poche furono le sconfitte catastrofiche e le occupazioni, anche molto umilianti, che subivano dai nemici storici (Forche caudine, Brenno, Canne, Teutoburgo e un elenco non breve di battaglie perse) a fronte delle quali, quasi a volerne mitigare le conseguenze, giustamente si osserva che i Romani perdevano le battaglie ma vincevano la guerra. Dunque la legione non spiega tutto. Il segreto è da rinvenire piuttosto nella straordinaria saldezza delle istituzioni repubblicane, nell’eccezionale forza d’animo al servizio dello Stato(Virtus) di cui il ceto dirigente sapeva dare massima prova nei momenti di estremo pericolo, coinvolgendo ogni cittadino romano che dalla Virtus faceva dipendere l'onore personale e la dignità sociale. Davanti a questa stabilità e fermezza Porsenna predomina ma rinuncia all’assedio, Brenno razzìa e poi sfolla, Pirro vince e rientra in Epiro, Annibale arriva ad portas e si allontana per oziare a Capua. La Roma repubblicana metteva soggezione e incuteva timoroso rispetto perché era un Popolo e uno Stato: questo era soprattutto il segreto della sua superiorità, e non soltanto le legioni. Fu Cicerone che nel “De Re Publica”, descrivendo la realtà storica, economica e sociale della sua città, identificò la Res Publica con la Res Populi; quando entrambi si immedesimano, si realizza l’optimus status civitatis,cioè la forma ideale di Stato. La sua secolare resistenza era dovuta all’organizzazione della struttura istituzionale, all’addestramento rigoroso che selezionava, prima ancora che il miles, il cives chiamato a dirigere, alla flessibilità delle strategie e, in particolare, alla disciplina ferrea. Quest’ultima era la dote morale richiesta non soltanto al soldato in guerra, ma al cittadino nella sua formazione civile, da mostrare poi con rigidezza militare in tutti i campi della vita.
La società romana si reggeva su un sistema di profondi valori morali, primari, semplici, univoci, chiari, assoluti e indiscussi, che palesava tutto l’influsso dell’origine contadina della sua civiltà. La famiglia, principium urbis et quasi seminarium rei publicae (Cicerone), era il centro di trasmissione di questi valori, che i Romani sentivano più come requisiti civili che come indicazioni educative. La famiglia era uno Stato embrionale, un elemento dell’organizzazione politico-militare, nella quale l’autorità paterna si assumeva il compito di introdurre i figli. Cardine di questo sistema era l’assoluta preminenza dello Stato, della collettività sul singolo cittadino, principio alla luce del quale rapportavano e giudicavano qualunque qualità e comportamento personale: non il coraggio in sé, ad esempio, era da apprezzare, ma il coraggio dimostrato nell’interesse e per la salvezza dello Stato; non la libertà personale era il valore irrinunciabile per il cittadino romano, ma la libertas, intesa come opportunità di ricoprire le cariche pubbliche e da magistrato mettersi al servizio dello Stato. In definitiva, era l’antico mos majorum a mantenere compatto il ceto dirigente, unito il popolo e salda la repubblica di fronte alle avversità.  In una società che oggi definiremmo ‘militarista’ può sorprendere che la distinzione tra il momento politico e quello militare fosse fondamentale al punto da condizionare l’esistenza della stessa repubblica. Quando infatti qualcuno (Mario, Silla) cominciò a volersi imporre politicamente sfruttando la forza delle armi, l’ordinamento repubblicano entrò in un periodo di crisi gravissimo e finì per soccombere a quello imperiale. Non diversamente da ciò che succede sotto i nostri occhi, oggi che il momento finanziario e mercatista allontana e cancella il momento politico, distruggendo le costituzioni democratiche nate nel periodo post-bellico.
In questi ultimi settant’anni il nostro sistema scolastico e le nostre istituzioni culturali in genere, influenzati pesantemente da una storiografia straniera, specie di provenienza anglosassone, hanno diffuso quasi la moda e il vezzo di diffidare dell’antica Roma e di sentenziare su di essa come di vecchie vicende, periodo di storia non più magistra, materia sospetta perché ispiratrice addirittura di derive nostalgiche, il timore delle quali ha spinto molti alla rinuncia culturale e politica delle migliori tradizioni e patrimoni ideali. Eppure, in questi momenti di confusione politica, di scompiglio negli schieramenti ideologici, di disgregazione sociale, di incrinature istituzionali, di censura e  rarefazione dei principi e valori costituzionali, sarebbe bene tornare a studiare quella irripetibile grandezza. Conoscerla a fondo potrebbe impartirci parecchie lezioncine su cosa e come nasce un gruppo dirigente, su cosa e come matura un popolo. Quid melius Roma? Si chiedeva Ovidio. Sappiamo che per non pochi stranieri lo Stato romano, alias la sua Costituzione, divenne un mito fondante, non per regimi autoritari, ma per le democrazie moderne. John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti d’America (1797-1801) e autore influente sulla stesura dell’ordine costituzionale americano, ritenne la costituzione dell’antica repubblica romana di importanza paradigmatica, perché diede vita “al popolo piú nobile e alla maggior potenza mai esistiti nella storia dell'umanità”. Lo studio di quell’ordinamento e di quelle politiche potrebbe ravvivare la brace patriottica, oggi sotto cenere, degli italiani e spingerli a reagire all’avvilimento dei tempi presenti, se soltanto volessero riscoprire di che pasta erano fatti quei coriacei discendenti di contadini trasformatisi in eccellenti statisti. L’antica repubblica romana fu un miracolo politico-istituzionale mai più ripetutosi nella storia d’Italia e anche d’Europa. A compierlo fu un ceto senatoriale formato da vecchi latifondisti e da nuovi arrivati che, per almeno cinque secoli, formarono una dirigenza politica di altissimo livello tutt’oggi insuperata, l’unica degna di rispetto sorta sulla Penisola da tremila anni a questa parte. Una grande capacità di sacrificio e la volontà di dedicare questa al bene dello Stato permise a questa oligarchia, non di casta ma per ricambio sociale, di raggiungere risultati civili e politici ancora ineguagliati nel corso della storia occidentale. Un successo (“pensando l'alto effetto/ ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale”) che ci consente di definire con giusta ragione il sorgere e la secolare egemonia di questa classe dirigente come l’avvenimento più interessante di tutta la storia d’Italia, mai a sufficienza studiato.

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