venerdì 12 settembre 2014

La resilienza dell'€uro (5)

Gli anni dell’inflazione (e della crescita)


L’estensione e la profondità dei cambiamenti intervenuti nel corso dell’integrazione europea pongono una serie di domande: quanto è stato democratico questo processo? E’ corretto affermare che ad una fase di, almeno parziale, democraticità, ha fatto seguito un periodo nel quale gli interessi di gran parte del corpo sociale sono stato esclusi dai processi decisionali? In caso affermativo, quando, e in che modo, ciò è avvenuto?

Non c’è dubbio sul fatto che, nel periodo che va dal 1957 (Trattato di Roma) al 1971 (la decisione di Nixon di abolire la convertibilità tra oro e dollaro), tutta l’Europa abbia conosciuto uno straordinario sviluppo economico, del quale hanno beneficiato, in misura crescente, i suoi cittadini. Tuttavia gli anni settanta hanno rappresentato, da questo punto di vista, una fase di transizione, durante la quale la dinamica redistributiva ha cambiato verso. Il “serpente monetario”, cioè il tentativo di preservare la politica agricola del MEC dagli squilibri causati dalle variazione di valore delle monete nazionali, non ebbe successo. La crisi petrolifera del 1973 causò un forte aumento dei prezzi, diseguale nei diversi paesi. In quelle condizioni il sistema non poteva sopravvivere, per cui prima l’Inghilterra e l’Irlanda (1972), poi l’Italia (1973), infine la Francia (1974) abbandonarono il sistema, lasciando fluttuare i cambi.

La ragione di ciò risiede nel fatto che, quando a causa di uno shock esterno (nel nostro caso il prezzo del petrolio, che quadruplicò) i prezzi di produzione variano, tale variazione non è la stessa ovunque. I paesi molto dipendenti dal prezzo dell’energia (tra questi l’Italia) sperimentarono un aumento dei prezzi maggiore, la cui conseguenza fu il peggioramento del saldo commerciale (differenza tra ciò che si esporta e ciò che si importa). Quando le merci prodotte da un paese aumentano di prezzo più di quelle dei loro concorrenti l’unico modo per non finire fuori  mercato è, come ben sa chiunque commerci, quello di fare sconti, cioè rinunciare a una parte dell’utile. Ora, oltre a quello dell’energia, il costo di un prodotto, soprattutto nei paesi “trasformatori”, dipende moltissimo dal costo del lavoro. Tuttavia praticare uno sconto diminuendo il costo del lavoro deprime la domanda interna, perché la gente non ha più soldi per comprare. In molti casi la soluzione più intelligente è quella che, a “fare lo sconto”, sia il capitale. Come? Accettando che il valore della moneta nazionale scenda, fino a ripristinare l’equilibrio.  Qualcuno può obiettare: “ma sempre di uno sconto si tratta: alla fine dei giochi, la ricchezza nazionale diminuisce comunque. Che a pagare siano i lavoratori, o i capitalisti, è un gioco a somma zero!

E invece no! Lo dimostrano i dati (le serie storiche) e lo dimostra la logica. Le ragioni sono molte. Ne citerò alcune:

1.    Il mercato interno pesa molto di più degli utili dei capitalisti. Una contrazione del mercato interno comporta una caduta delle attività molto più pronunciata di quella che può derivare da una diminuzione degli utili da capitale.
2.    I capitalisti, se possono assorbire gli shock diminuendo i salari, trascurano di investire in migliorie. La conseguenza è un’ulteriore caduta di produttività, che a sua volta deprime le esportazioni… come un gatto che si morde la coda.
3.    I capitalisti possono trasferire i loro capitali all’estero, mentre i lavoratori, normalmente, fanno la spesa sotto casa, sostenendo così l’economia domestica.
4.    Se la moneta domestica è sopravvalutata rispetto ai fondamentali reali dell’economia, conviene comprare beni esteri piuttosto che nazionali, peggiorando così il saldo commerciale.
5.    Se si decide di “difendere il cambio”, ordinando alla Banca Centrale di intervenire, si spendono soldi “buoni” vendendo valuta estera (preziosa perché non possiamo stamparla) per acquistare valuta nazionale, che possiamo stampare quanto ci pare. A quei tempi, ovviamente….

Vi basta? Potrei continuare ma, in ogni caso, ci sono i dati che dimostrano l’evidenza. Nel 1973 fu presa la decisione corretta: uscire dal serpente monetario accettando che la lira svalutasse. Il guaio era che, appena qualche anno prima, c’era stato l’autunno caldo, in seguito al quale si erano già avuti forti aumenti salariali. Il capitale, insomma, si prendeva la seconda sberla in pochi anni. E la “sinistra”? Ci credereste se vi dicessi che la sinistra, in quegli anni, vedeva crescere i suoi consensi? Che strano, vero? La sinistra, facendo gli interessi del suo elettorato, accresceva i suoi consensi: nelle amministrative del 15 e 16 giugno 1975 il PCI raggiunse il 34% dei voti, massimo storico per quel partito. Fu un momento cruciale. La sinistra, cioè il PCI, i socialisti, i socialdemocratici, e il cartello di liste della sinistra riunito in Democrazia Proletaria (Partito di Unità Proletaria per il comunismo, Avanguardia Operaia, Movimento Lavoratori per il Socialismo, Organizzazione Comunista marxista-leninista, Lega comunista rivoluzionaria IV internazionale, Lega dei comunisti), aveva oltrepassato il 50% dei consensi. Si trattava di elezioni amministrative, ma il fatto che giunte di sinistra governassero in tutte le regioni più sviluppate, ad eccezione della Lombardia, rappresentava una seria minaccia per il sistema di potere democristiano, fortemente radicato negli apparati amministrativi! Il punto è che lo schieramento conservatore aveva perso capacità di attrarre consensi perché, agli occhi di una società in tumultuoso cambiamento, anche sul piano dei costumi, appariva poco moderno. L’anno prima si era svolto il referendum sul divorzio, ora l’avanzata delle sinistre, cosa sarebbe potuto accadere? Gli anni successivi furono densi di cambiamenti.

Il 18 agosto 1975 sopravvennero le improvvise dimissioni del Governatore della Banca d’Italia Guido Carli, in carica dal 1960, per ragioni mai ufficialmente chiarite. Sotto la sua guida la Banca d’Italia aveva seguito un indirizzo di politica monetaria che, nel giro di pochi anni, avrebbe subito una conversione ad U per assecondare il processo di trasformazione del Mercato Comune Europeo nel Mercato Unico. Il cuore del problema era la politica monetaria. Uno Stato a moneta sovrana, come era l’Italia a quei tempi, può reperire risorse finanziarie sia attraverso le tasse, sia emettendo titoli di stato (BOT, CCT, BTP etc.). Questo secondo modo di approvvigionarsi è quello che tutti conosciamo come debito pubblico.

La Banca Centrale può intervenire in questo processo regolando l’offerta di moneta, sebbene questo strumento abbia un’efficacia solo parziale. Infatti, mentre è facile “raffreddare l’inflazione” alzando i tassi di interesse (si “tira la corda”), non altrettanto facile è uscire da una situazione di stagnazione (o addirittura caduta) dei prezzi abbassando i tassi di interesse (la corda non si può spingere). La situazione peggiore è quella in cui si hanno, contemporaneamente, stagnazione economica e inflazione. Si chiama stagflazione, o trappola della liquidità.

La politica seguita dai governi di centrosinistra e dalla Banca d’Italia, negli anni in cui Guido Carli ne era Governatore, consisteva nell’emettere titoli di stato ad un tasso di interesse non distante dal livello di inflazione, talvolta anche inferiore. Inoltre i governi potevano finanziare la spesa emettendo titoli di stato in misura anche superiore alla richiesta dei risparmiatori, perché la Banca d’Italia aveva l’obbligo di acquistare i titoli invenduti. Nel far ciò la Banca d’Italia “stampava” lire, creando denaro dal nulla. Tuttavia, poiché l’economia cresceva, l’inflazione si manteneva bassa. Anche il debito pubblico, essendo i tassi di interesse pagati dai titoli di stato sostanzialmente pari, quando non inferiori, all’inflazione, cresceva poco rispetto al PIL. In un certo senso, il debole aumento del rapporto tra il debito pubblico e il PIl rispecchiava l’aumento della ricchezza nazionale, rappresentando la quota di risparmio investita dagli italiani in titoli sicuri. Questo tipo di investimento serviva a “spostare la futuro” una quota del risparmio familiare, quella che non si voleva esporre al rischio di un investimento, o alle oscillazioni del mercato azionario.

Questo meccanismo, che aveva assicurato all’Italia due decenni di crescita economica alla “cinese”, con incrementi medi del 5% l’anno, aveva subito una prima scossa nel 1969, quando i lavoratori avevano preteso, dopo una stagione di duro confronto sindacale (l’autunno caldo) una maggiore partecipazione agli utili. Gli incrementi salariali ottenuti dai lavoratori del settore industriale furono imponenti: +18.3% nel 1970, + 9.8% nel 1971, + 9% nel 1972. La quota salari (redditi da lavoro dipendente in percentuale del Pil) salì di quattro punti, sebbene con effetti non catastrofici sull’inflazione, che passò dal 2% al 4-5%. Ma, quando sembrava che le cose si stessero “aggiustando” rassicurando così i capitali (l’inflazione aveva cominciato a stabilizzarsi), nel 1973 arrivò il primo shock petrolifero. Il prezzo del greggio quadruplicò, i prezzi salirono vertiginosamente, ma la disoccupazione, inizialmente, scese, mentre continuò a salire la quota salari. Questa, nel 1975 (l’anno della grande avanzata della sinistra), avrebbe raggiunto il suo massimo storico al 51% del PIL! Da quel momento le cose cominciarono a cambiare.

Il “conto” della crisi


Prima di proseguire nel racconto è necessario porsi una domanda: cosa accade quando le condizioni esterne su cui si basa un regime economico subiscono un radicale mutamento, ad esempio un aumento sensibile dei costi dell’energia? La prima riflessione è che l’aumento del costo del petrolio ebbe impatto su tutti i paesi, non solo l’Italia. Il costo dell’energia salì anche in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Olanda, e via dicendo. Nessuno di questi paesi aveva grandi risorse energetiche, ad eccezione del Regno Unito che, proprio in conseguenza dello shock petrolifero, iniziò lo sfruttamento del petrolio del mare del nord, ottenendo però risultati tangibili solo nel decennio successivo. Le difficoltà dell’economia italiana furono sostanzialmente le stesse di tutte le altre, almeno limitatamente all’Europa, che è il punto che ci interessa maggiormente, visto che è soprattutto con i nostri vicini europei che noi commerciavamo (e commerciamo).

Il problema, dunque, deve essere inquadrato in una prospettiva diversa, e cioè: a fronte di una diminuzione degli utili, causata da un aumento dei costi dell’energia, chi deve “pagare il conto”? Il capitale o il lavoro? La verità è che il primo shock petrolifero, come pure il secondo nel 1979, rinfocolò il conflitto di classe. Il conto, inizialmente, fu pagato dal capitale. Nel 1975 la scala mobile venne modificata con l’introduzione del punto unico, che garantiva a tutte le categorie un sostanziale recupero del potere d’acquisto rispetto all’inflazione.  Questa iniziò a salire: dal 5.6% del ’72 al 10.37% nel  ’73, 19.45% nel ’74, 17.16% nel ’75, 16.51% nel ’76, 18.11% nel ’77, 12.43% nel ’78. Il dato interessante è la forte contrazione avvenuta nel 1978, un anno prima del secondo shock petrolifero: una riduzione del 30%, un chiaro sintomo del fatto che il sistema produttivo italiano aveva assorbito il primo shock e iniziava a riprendersi.

L’inflazione può avere cause diverse. Una forte conflittualità sociale con i lavoratori che chiedono continui aumenti salariali certamente provoca inflazione, come pure un aumento improvviso dei costi di produzione. In questo caso, però, se non sopravvengono altri aumenti, e l’azione del governo preserva il tessuto produttivo, ad esempio aumentando la spesa per investimenti, l’inflazione tende a rientrare. La risposta del governo, dopo un tentativo imporre politiche di austerity nella seconda parte del 1976, fu l’aumento della spesa pubblica. Il sistema industriale italiano avviò una fase di ristrutturazione caratterizzata da risparmi energetici e innovazioni miranti a ridurre il numero di addetti per unità di prodotto. Questo mix di provvedimenti governativi, e di reattività del sistema produttivo, non mancò di dare dei frutti, seppure contradditori:  alla caduta dell’inflazione fece riscontro una confermata tendenza all’aumento della disoccupazione, che dal 5% del ’75 salì al 7% del 1979, alla vigilia del secondo shock petrolifero, gli effetti del quale ebbero conseguenze politiche molto maggiori del primo, che pure è quello rimasto più impresso nella memoria collettiva.

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