mercoledì 17 settembre 2014

La resilienza dell'€uro (7)

Svalutazione, inflazione e lotta di classe

Facciamo ora un esempio di quello che accadeva normalmente prima dello SME. Supponiamo che in un paese, ad esempio l’Italia, in seguito ad agitazioni sindacali il costo del lavoro aumentasse. Di conseguenza il saldo commerciale sarebbe peggiorato, ovvero sarebbero aumentate le importazioni (quando la gente ha soldi compra di più, anche dall’estero) e sarebbero diminuite le esportazioni (perché i prezzi dei prodotti italiani sarebbero aumentati). Molto rapidamente, tuttavia, la moneta si sarebbe svalutata, sia per effetto dell’eccesso di offerta di lire sui mercati valutari, necessarie per reperire  le valute straniere che servivano all’acquisto di beni esteri, sia per la diminuzione della richiesta di lire necessarie per l’acquisto di prodotti italiani da parte dei compratori esteri.  Senza l’obbligo di mantenere il valore nominale della moneta ancorato a quello degli altri paesi europei, il riallineamento del valore della moneta (svalutazione della lira) avrebbe compensato, agli occhi dei compratori esteri, l’aumento dei prezzi interni. Il risultato sarebbe stato un aumento della quota di reddito a favore del lavoro, e una perdita per il capitale. Quest’ultimo avrebbe pagato un duplice prezzo: oltre a subire le richieste di aumenti salariali, si sarebbe ritrovato tra le mani una moneta che manifestava una tendenza alla svalutazione tanto più pronunciata quanto più basso fosse stato il livello di disoccupazione. Questo perché, quando la disoccupazione è bassa, è più facile per i lavoratori ottenere aumenti. Inoltre, questo è un punto importantissimo,  essendo in vigore rigide restrizioni alla circolazione dei capitali, sia in uscita che in ingresso, questi non potevano andare in cerca di migliori opportunità di guadagno, ma erano costretti a trovarle sul mercato domestico. Quando il meccanismo testé descritto rischiava di eccedere i limiti, il governo poteva intervenire alzando i tassi di interesse sui prestiti bancari (tirava la corda). Questo intervento “raffreddava” l’economia creando un po’ di disoccupazione, e riequilibrava il conflitto distributivo. Un ulteriore strumento a disposizione del governo era la spesa pubblica. Grazie al fatto che la banca d’Italia poteva intercettare, pagando tassi di interesse molto bassi (quando non negativi) una parte rilevante del risparmio degli italiani, il governo disponeva delle risorse necessarie per vasti programmi di opere infrastrutturali, che avevano il duplice effetto di sostenere l’economia e di realizzare opere importanti sia per il benessere collettivo che per lo stesso sistema produttivo. Si pensi, per fare qualche esempio, alla realizzazione dell’estesa rete autostradale, poi privatizzata, o alla nazionalizzazione dell’industria elettrica e delle telecomunicazioni, anch’esse oggi privatizzate!

Tutto ciò, sebbene il paese crescesse, non rappresentava una situazione ideale per i possessori di capitali. Tuttavia l’equilibrio aveva retto a lungo, sia perché l’economia cresceva a ritmi molto sostenuti, sia perché il dollaro, prima della decisione di Nixon, forniva uno strumento di tesaurizzazione abbastanza affidabile.  La fine della convertibilità del dollaro con l’oro, e ancor di più i due shock petroliferi, ebbero l’effetto di spostare l’equilibrio di classe eccessivamente, e troppo rapidamente, in favore del lavoro. Non solo era venuta a mancare la funzione tesaurizzatrice svolta dal dollaro, fino a quel momento moneta sicura per eccellenza, ma gran parte del costo dell’aggiustamento necessario a fronteggiare gli aumenti del prezzo del petrolio si stava scaricando sugli utili del capitale. L’inflazione, come abbiamo già ricordato, salì alle stelle, mentre, per sostenere l’economia, i governi aumentavano la spesa offrendo una messe di titoli di stato che gli italiani si affrettarono a sottoscrivere. 

Nessun commento:

Posta un commento