giovedì 4 dicembre 2014

La resilienza dell'€uro (16)

Nota: questa è l'ultima puntata. La settimana prossima faccio il bonifico all'ARS ('na cifra...)

La scalfaromics


L’esito della crisi politica non incontrò il gradimento di quella parte dell’establishment italiano che stava puntando tutte le sue carte sulla ratifica del trattato di Maastricht, prevista per il 1992. Non si perdonava a Craxi lo scetticismo per la prospettiva dell’unione monetaria (“Un limbo nella migliore delle ipotesi, un inferno nella peggiore”, ebbe a dichiarare qualche anno dopo), mentre di Andreotti si ricordava la gestione della crisi del 1977, con le promesse, non mantenute, di ridurre il deficit di bilancio. Come abbiamo visto, era stata proprio questa circostanza a tirar fuori l’Italia dalle secche, almeno fino a quando il secondo shock petrolifero non aveva riacceso l’inflazione, ma ormai l’establishment aveva fermamente scelto l’opzione della moneta unica, ragion per cui Andreotti e Craxi, e con loro Forlani, entrarono nel mirino di un’accesa polemica giornalistica, capeggiata al solito da Repubblica, che preparò il terreno per l’oscura vicenda di tangentopoli. Il titolo dell’editoriale di Scalfari del 9 luglio 1989, tre giorni dopo le dimissioni del suo pupillo De Mita, non lasciava dubbi sull’orientamento del giornale: “E ORA LA FESTA PUO' COMINCIARE”. In un successivo editoriale dell’otto agosto 1989, dal titolo “MA CARLI E' L'ULTIMA PROVA D'APPELLO”, Scalfari esordiva così: “Ci sono molte contraddizioni nell'economia e nella finanza italiane: i profitti delle imprese sono alti, ma le esportazioni declinano; la bilancia commerciale registra un disavanzo preoccupante, ma il cambio della lira è a livelli da primato; la liquidità è abbondante, ma i tassi d' interesse continuano ad essere elevatissimi. Infine, il gettito fiscale aumenta senza tregua, ma il deficit pubblico non ne riceve alcun sollievo e il Tesoro non vede ridursi le angosciose dimensioni del fabbisogno da finanziare sul mercato. Guido Carli sta riflettendo sull' intreccio di queste contraddizioni. La sua nomina a ministro del Tesoro ha un significato di annuncio che non si presta ad equivoci. Nella politica di risanamento finanziario ha fallito Giuliano Amato, fallì prima di lui Giovanni Goria e, prima ancora, Andreatta. Carli rappresenta dunque l' ultima prova di appello. Se mancasse anche lui, l'Italia non potrà esser presente ai riti dell' unificazione economica europea del '92”.

Più avanti, nello stesso editoriale: “Abbiamo un' inflazione al 7 per cento e un apprezzamento della lira puntellato da un tasso di interesse reale che attira capitali esteri in cerca di impieghi remunerativi. L'afflusso di questi capitali serve a finanziare le importazioni, incoraggiate dal livello del cambio e da un'alta propensione al consumo. Bisognerebbe dunque per contenere il disavanzo commerciale e rilanciare le esportazioni deprimere il livello del cambio estero. Ma se si seguisse questa politica il tasso di inflazione aumenterebbe ancora di più. La via del deprezzamento del cambio è dunque preclusa, almeno fino a quando i conti dello Stato verseranno in così patologiche situazioni”. Infine, chicca delle chicche: “Il disavanzo primario del bilancio dello Stato, al netto degli oneri destinati al servizio degli interessi sul debito pubblico, è ancora cospicuo anche se in via di graduale diminuzione”.

Ci sono, in queste poche frasi tratte dall’editoriale di Scalfari, tutte le aporie della politica economica liberista degli anni ottanta, e gli artifizi linguistici usati per nasconderle. Esaminiamone qualcuno:

  • “i profitti delle imprese sono alti, ma le esportazioni declinano; la bilancia commerciale registra un disavanzo preoccupante, ma il cambio della lira è a livelli da primato;”.
Se Scalfari avesse invertito l’ordine delle e nelle due frasi, usando la locuzione congiuntiva “e” al posto di quella avversativa “ma”, non avremmo avuto nulla da obiettare. Scritto così: “il cambio della lira è a livelli da primato e la bilancia commerciale registra un disavanzo preoccupante; le esportazioni declinano e i profitti delle imprese sono alti;” il periodo cambia completamente di significato e assume un senso. E’ ovvio che, se il cambio della lira è alto, le esportazioni soffrano! E’ meno ovvio, ma non difficile da capire, che, con il cambio alto, anche se le esportazioni declinano i profitti rimangano alti! L’ideale, come si sa, sarebbe esportare molto con un cambio alto, ma da sempre gli industriali, se proprio devono scegliere, preferiscono esportare di meno e con un cambio alto. Il problema è che per guadagnare con un cambio alto esportando di meno è necessario ridurre il costo del lavoro, nonché la spesa pubblica!

Infine, la bordata finale: “Bisognerebbe dunque per contenere il disavanzo commerciale e rilanciare le esportazioni deprimere il livello del cambio estero. Ma se si seguisse questa politica il tasso di inflazione aumenterebbe ancora di più. La via del deprezzamento del cambio è dunque preclusa, almeno fino a quando i conti dello Stato verseranno in così patologiche situazioni”. Questa altro non è che la terroristica uguaglianza SVALUTAZIONE=INFLAZIONE, scemenza di proporzioni tali da non meritare commento. Il finale della scalfaromics è scontato: “Il disavanzo primario del bilancio dello Stato, al netto degli oneri destinati al servizio degli interessi sul debito pubblico, è ancora cospicuo anche se in via di graduale diminuzione”. Falso! Perché la spesa primaria dello stato italiano era in linea con quella di Francia e Germania, come dimostra questo grafico, tratto da dati ufficiali della Banca d’Italia.


La teoria dello “Stato sprecone” e dei “mercati efficienti


Se parlate di politica con un cittadino italiano (ma anche con tedesco, uno spagnolo, un greco), potete essere certi che, salvo poche eccezioni, vi troverete di fronte ad alcune convinzioni, assiomatiche e incontestabili quanto errate, dalle quali tutto viene dedotto. Non era così quando ero bambino. Ricordo ancora le discussioni con alcuni compaesani, figli di comunisti (io ero figlio di democristiani), che tessevano le lodi dell’Unione Sovietica, patria dei lavoratori. Essendo pargoletti, gli argomenti erano per forza di cose ingenui. Del tipo (io) “se un negoziante è pagato dallo Stato, perché dovrebbe darsi da fare per migliorare?”, al che il mio giovane interlocutore partiva per la tangente con la tesi “l’uomo è fondamentalmente buono e generoso, diventa egoista per colpa del sistema”. Ho nostalgia di quei lunghi dibattiti che spaziavano, per altro, su un orizzonte infinito di temi. Sono passati tanti anni. Io continuo a pensare che senza un incentivo individuale nessuno si dà da fare, ma anche che i miei genitori, impiegati statali, hanno svolto un compito che non può essere lasciato all’iniziativa privata. I miei amici di un tempo, quelli che “l’uomo è buono per natura ma il sistema lo rovina”, hanno in grandissima parte cambiato completamente idea, anche se non se ne rendono conto. Si considerano ancora “de sinistra” ma, se gli parli, ti dicono che lo Stato è inefficiente, corrotto, improduttivo, e dunque che l’iniziativa privata è necessaria, perché così le risorse (sempre scarse) vengono allocate con maggior efficienza. Dopo tanti anni abbiamo tutti un linguaggio più “forbito”!
Siamo sicuri di questo? E’ proprio vero che la somma dei danni economici causati dalla corruzione “pubblica” sia maggiore rispetto a quella “privata”? Soprattutto, siamo certi che sia la corruzione la rovina delle nazioni?
Rispetto alla prima domanda, penso siate d’accordo sul fatto che i costi della corruzione debbano essere valutati non solo in base al numero di scandali di cui veniamo a conoscenza attraverso il sistema dei media, ma che di ognuno di essi si debba considerare il peso in termini di risorse distrutte. Certo, se ogni santo giorno la televisione ci parla di dieci episodi di corruzione nel settore pubblico, e solo una volta al mese di uno scandalo “privato”, allora magari ci facciamo l’idea che ciò che è “pubblico” sia una sentina di vizi, mentre il “privato”, salvo qualche eccezione, sia sostanzialmente sano. Le cose non stanno affatto così, ma è così che funziona il sistema dell’informazione. Non solo perché è opportunamente orientato (lo è), ma anche per una ragione intimamente connessa al suo funzionamento. In primo luogo, chi fa giornalismo deve produrre, ogni giorno, delle novità. Così accade che il salvataggio di una banca privata per decine di miliardi di euro faccia il paio con un consigliere comunale di Canigattì che lucra sulle concessioni edilizie. Inoltre, mentre è lecito, anzi dovuto, informare il pubblico delle malversazioni di un pubblico ufficiale (vigile urbano, assessore, sindaco etc..), anche sulla base di semplici illazioni (è la lotta politica, bellezza!), non è altrettanto facile sbattere in prima pagina la miriade di porcherie che accadono, ogni giorno, tra gli operatori privati. Provateci, poi mi saprete dire.

E’ accaduto così, sia perché l’informazione è opportunamente orientata, sia per quella che è la sua natura, che la maggior parte delle persone si sia fatta l’idea che ciò che è pubblico è intrinsecamente inefficiente, quando non corrotto, mentre ciò che è privato è sostanzialmente sano. E’ un’idea difficile da contrastare, ma non perché manchino i dati. Il fatto è che la maggior parte delle persone ragiona per via induttiva, costruendo la propria visione della realtà sulla base dei ricordi che si fissano nella memoria. Un modo per contrastare questa naturale tendenza consiste nel far sì che si abbiano delle idee forti, che funzionino come campanelli d’allarme rispetto alle convinzioni che penetrano nella mente per opera del sistema dell’informazione, ma coloro che orientano l’informazione si sono premuniti. La demonizzazione delle ideologie, termine che ha assunto una connotazione definitivamente negativa, è stata funzionale a questo scopo. Tuttavia, e qui sta il paradosso, mentre un’ideologia (il marxismo)  veniva demonizzata, una nuova ne prendeva il posto: il liberismo.

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