giovedì 2 ottobre 2014

La resilienza dell'€uro (11)

Il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia


Beniamino Andreatta con Giorgio Napolitano
L’adesione allo SME rispondeva a un’esigenza squisitamente politica: il controllo dell’inflazione interna, causata dal clima di accesa rivendicazione salariale di quegli anni, per mezzo di un vincolo esterno. Aderendo allo SME, seppure con il momentaneo beneficio di una banda di oscillazione piuttosto ampia, l’Italia si avviava a rinunciare allo strumento della svalutazione monetaria per compensare le perdite di produttività.

La strategia politica per ottenere l’assenso delle forze di sinistra fu l’accorta gestione dell’apertura delle funzioni di governo a quel ceto politico, anche alimentando la tradizionale rivalità tra i socialisti e i comunisti. Il processo di ammorbidimento dell’opposizione delle sinistre fu accompagnato da un’intelligente operazione culturale, il cui perno fu il quotidiano “Repubblica” di Eugenio Scalfari.

Per avere successo, tuttavia, l’operazione doveva contare sull’esistenza di un blocco sociale molto più ampio di quello rappresentato dai tradizionali ceti privilegiati o dai lettori conquistati dalla capziosa narrazione di un quotidiano. Questo blocco, che all’epoca non esisteva, fu letteralmente creato dal nulla dalle conseguenze dell’entrata nello SME, come pure da una lunga serie di modifiche sia normative che consuetudinarie, una delle quali fu il cosiddetto “divorzio Tesoro-Banca d’Italia”. Con questa espressione ci si riferisce ad una decisione, assunta nel luglio 1981, in pieno accordo tra il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della BC Carlo Azeglio Ciampi, e senza alcuna discussione  parlamentare, in seguito alla quale la Banca d’Italia fu esentata dall’obbligo di porsi come acquirente residuale dei titoli del debito pubblico rimasti eventualmente invenduti alle aste.

In realtà, a partire dal “divorzio”, il sostegno della Banca d’Italia all’acquisto dei titoli del Tesoro continuò, per poi scendere sul finire degli anni ’80 quando, concluso il processo di liberalizzazione dei movimenti dei capitali, alla domanda nazionale di titoli si affiancò quella degli investitori esteri. Corrisponde, dunque, solo parzialmente al vero la vulgata secondo cui la causa principale, e diretta, dell’aumento del debito pubblico (che dal 1981 al 1994 passò dal 59% al 123% del PIL) sia da imputare  al “divorzio”, gli effetti del quale devono essere inquadrati in una prospettiva più ampia che comprendeva, tra l’altro, l’obiettivo di limitare la capacità di intervento dello Stato nell’economia e di introdurre un principio, quello dell’indipendenza della Banca Centrale, che avrebbe profondamente cambiato gli equilibri politici e il senso stesso della parola “democrazia”.

Coloro che ascrivono al “divorzio” questa responsabilità sostengono, correttamente, che la fine dell’obbligo di acquisto residuale dei titoli di stato ebbe l’effetto di spostare dal venditore (lo Stato) agli acquirenti (i mercati) il potere di determinare i tassi di interesse. Questi, pertanto, sarebbero aumentati in modo abnorme determinando l’esplosione del debito pubblico. Tuttavia le ragioni principali dell’aumento dei tassi di interesse reali (differenza tra interesse nominale offerto ai sottoscrittori e tasso di inflazione) furono l’adozione di una politica monetarista da parte della FED e, soprattutto, l’adesione allo SME.

Il cambio di una moneta dipende dalla legge della domanda e dell’offerta. Come sappiamo, quando un paese esporta più di quanto importi la sua moneta è molto “domandata” e quindi sale di prezzo (si rivaluta), il contrario quando le importazioni superano le esportazioni. Ma una moneta può essere “domandata” anche per un’altra ragione, e cioè quando la Banca Centrale offre titoli di stato con un interesse maggiore dei suoi concorrenti. Questa è la ragione principale per cui i tassi reali dei titoli di stato italiani, dopo l’adesione allo SME, cominciarono a salire: la necessità di contrastare la naturale tendenza alla svalutazione della lira, che rispecchiava l’effettivo andamento dell’economia, per rispettare l’accordo di cambio sottoscritto. Il fenomeno sarebbe stato fortemente incentivato dai provvedimenti, adottati negli anni successivi al “divorzio”, volti a liberalizzare i movimenti di capitali.

La politica di alti tassi di interesse reali creò le condizioni per un imponente trasferimento di ricchezza dai salari alla rendita finanziaria, attraverso l’esplosione del debito pubblico. La lettura dei fatti testé descritta è confermata dallo stesso Beniamino Andreatta, in un articolo del 26 luglio 1991. Affermava Andreatta che “L' imperativo era di cambiare il regime della politica economica e lo dovevo fare in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall' ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole. La nostra stessa presenza nello Sme era allora messa in pericolo (c'è da ricordare che il partito socialista si era astenuto quando il Parlamento votò nel 1978 sull'adesione all'accordo di cambio e che i ministri socialisti avevano di fatto un potere di veto sulla politica economica)”.

Dunque, Andreatta aveva “colleghi ossessionati dall' ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”. Una preoccupazione che sarebbe scomparsa di lì a poco, con la trasformazione della sinistra italiana (con poche eccezioni) nella fazione più entusiasta e convinta a sostegno dell’ideologia del mercato ad ogni costo.

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